Premessa

Ho sentito raccontare questi tre episodi da mio padre in due occasioni: la prima volta nel corso del 60° anniversario della battaglia di el Alamein, quando un circolo del Lion Club di Genova organizzò una celebrazione dell’evento invitando anche un ex ufficiale carrista dell’Afrika Corp ed un sergente artigliere inglese. Al Circolo Ufficiali tutti e tre gli ex nemici raccontarono alcuni fatti di cui erano stati protagonisti o testimoni, questo fu il contributo di mio padre.

La seconda volta dieci anni dopo, per il 70° della battaglia, dove fu invitato a parlare a Palazzo San Giorgio, pochi mesi prima di morire.

Entrambe le volte premetteva che la guerra è una cosa spaventosa, ma che anche in momenti così violenti e tragici si verificano episodi di umanità, perché il lato buono dell’uomo può emergere in qualunque situazione.

Preciso che i tre titoli sono di mia fantasia, potevo indicarli come episodio n. 1 ecc.

Buona lettura e, sempre….

FOLGORE!

Marco Traverso.

Il nemico salvato

Di notte, lungo il fronte, è notevole l’attività di pattuglie da parte di entrambi gli schieramenti per cercare di capire cambiamenti nella linea avversaria, se vengono stesi o modificati campi minati da parte del nemico, se ci sono movimenti sospetti ecc.

Non sono rari i casi in cui due opposte pattuglie si scontrano brevemente ma intensamente: spesso, in questi casi, si lavora anche di coltello.

Papà si offre di comandare una pattuglia che, di notte, andrà a esplorare un settore del fronte nella “terra di nessuno”. Dopo un po’ la pattuglia italiana viene a contatto con una inglese: violentissima sparatoria, poi gli inglesi si sganciano e interviene la loro artiglieria, che tira in rapida successione diversi colpi, quindi tutto finisce rapidamente così come era cominciato.

I paracadutisti sentono però dei lamenti prolungati e strazianti e, rimanendo ben acquattati, a bassa voce si contano: ci sono tutti, nemmeno un ferito tra loro, per cui i lamenti sono di un nemico. Strisciando si riuniscono, i lamenti continuano provenienti da una direzione precisa: poche frasi bisbigliate, mio padre dice che non si può lasciar morire dissanguato quel poveraccio, tutti sono d’accordo, lo si va a prendere.

In tre si avviano quindi strisciando sul terreno nella direzione dei lamenti, mentre gli altri si dispongono a fronteggiare eventuali sorprese: poco dopo i tre trovano un fante inglese sdraiato in modo strano, che subito chiede acqua. Gli italiani gli fanno segno che non ne hanno, quindi lo prendono e, il più rapidamente possibile ma con gran circospezione, lo portano nelle linee della Folgore, nel posto di soccorso situato nel trincerone, dove gli prestano le prime cure con i pacchetti di medicazione. L’inglese risulta ferito al sedere da numerose schegge di granata: è dunque stato vittima di “fuoco amico”. Ha perso molto sangue, senza l’intervento dei paracadutisti sarebbe morto certamente, visto che i suoi compagni di pattuglia l’avevano lasciato sul campo. L’uomo continua a chiedere acqua, i paracadutisti lì attorno gli dicono che non ne hanno mostrando le borracce desolatamente asciutte, ma quello fa capire che non ci crede, forse pensa che gli italiani lo vogliono far soffrire per “ammorbidirlo” prima dell’interrogatorio che certamente sarebbe seguito.

Si capisce però che sta soffrendo molto, tutti sono veramente dispiaciuti di non avere acqua da dargli: un paracadutista si incarica allora di andare in giro (è ancora notte) buca per buca, per vedere di recuperare un po’ d’acqua. Quando torna è riuscito a racimolarne un mezzo gamellino e lo porge al prigioniero, che beve avidamente e appare subito molto sollevato: ora ha capito che davvero i paracadutisti non hanno acqua, quindi chiede stupito e ammirato com’è possibile che riescano a combattere in quella situazione. Mio padre gli risponde allora con voluta noncuranza e malcelato orgoglio: “Ma noi siamo paracadutisti italiani!”

La lingua del ferito si scioglie e si scopre, come dice chiaramente il suo cognome, che è di origine greca (mio padre ne ricordava anche il nome, io no, facciamo finta si chiamasse Georgos Koronaios): è figlio di greci immigrati in Inghilterra o, meglio, in Scozia, precisazione cui mostra di tenere molto. Poi viene portato, con altri feriti italiani, nell’ospedaletto da campo dietro le linee e la faccenda è presto dimenticata.

Successivamente ci fu il ferimento di mio padre, il ricovero a Marsa Matruh nell’ospedale militare italiano e quindi il suo imbarco alla volta di Napoli, dove rimase parecchi mesi; infine fu portato in un ospedale a Varese (era in realtà un albergo di lusso, requisito e adattato a ospedale). Una delle prime volte che riesce, con le stampelle, ad andare nel giardino, vede là dei degenti prigionieri e, con grande sorpresa, tra quelli c’è il Georgos, ancora convalescente: gli si avvicina, quello lo riconosce subito, abbracci, sorrisi, scambio di parole e di gesti, in qualche modo riescono a capirsi, tanto che trascorrono tre giorni sempre assieme. Poi, con altri prigionieri, Georgos viene trasferito, probabilmente in un campo di prigionia.

Particolare curioso, che stupiva molto mio padre: da qualche parte era saltata fuori una bottiglia di whisky e il nostro Georgos, nel suo gamellino, alle due dita di liquore aggiungeva invariabilmente tre gocce di tintura di iodio …

Il nemico risparmiato

Un’altra volta mio padre (sergente) e tre paracadutisti (qui non so se erano stati comandati o si erano offerti volontari), devono uscire nottetempo dalle loro postazioni, raggiungere la collina dell’Haret el Himeimat (piccolo ma importante rilievo in una zona pianeggiante) per poi, durante il giorno, osservare il fronte nemico in quel settore e quindi rientrare la notte successiva con i risultati dell’appostamento).

Giunti sulla collina nel più assoluto silenzio, prendono posizione e attendono l’alba per iniziare il loro compito. Alle prime luci, scorgono una postazione inglese a meno di trenta metri, una piccola trincea sul bordo della quale sta seduto, completamente allo scoperto, un soldato inglese, un ragazzo come loro, intento a farsi la barba, beatamente rimirandosi in uno specchietto e del tutto ignaro del pericolo mortale che stava correndo: rimangono sorpresi, forse è un novellino, a quella distanza lo si farebbe secco senza alcun problema (tutti i paracadutisti sono buoni tiratori, ma quel bersaglio è talmente facile che lo centrerebbe anche un tiratore solo mediocre). Mio padre pensa “siamo in guerra, ma sparare a quel ragazzo sarebbe un omicidio” e si volta per trasmettere questo pensiero agli altri tre, ma vede che questi sorridono e scuotono la testa: non c’è bisogno di dir nulla, tutti hanno pensato la medesima cosa, nessuno ha fatto nemmeno l’atto scherzoso di puntare l’indice a mo’ di pistola.

Al calar della notte, rientrano nelle loro linee con la coscienza leggera.

Il nemico rispettato

Primo impatto forte con la guerra per mio padre, credo sia successo dopo un paio di giorni dal suo arrivo in linea.

Uscito verso sera con altri due o tre paracadutisti per cercare acqua in alcuni relitti di camionette e carri inglesi, vicino ad uno di questi scorgono i resti di un soldato: si tratta della parte inferiore del corpo, tranciato di netto dalla vita in giù e, dai pantaloni corti e dagli scarponcini, capiscono che è un inglese. Per tutti e tre è il primo cadavere che vedono al fronte: cercano nei dintorni se ci sono altri suoi resti, ma non trovano altro. Scavano una piccola buca con le baionette, vi adagiano i miseri resti, pongono sopra un pezzo di lamiera per cercare di impedire agli animali del deserto di farne scempio, ricoprono con la sabbia, fanno un piccolo tumulo di pietre e riescono, con alcuni pezzi di legno o di metallo dei relitti, a piantare una rudimentale croce: un momento di raccoglimento per un Requiem Aeternam e un segno di croce, poi avanti con la ricerca di una tanca o almeno di qualche bottiglia o borraccia d’acqua, preda ambitissima nel deserto.